NUE 4: Economia dell’Armonia
NUE 4: Economia dell’Armonia

NUE 4: Economia dell’Armonia

     Scommettiamo che arriveremo prima di quanto si immagini ad una Economia dell’Armonia, con una nuova Filosofia del Denaro? Vedo montare l’onda di una comprensione sempre più spirituale della Natura Umana che travolgerà senza scampo i detriti rimasti sul campo dall’implosione del capitalismo, vittima del suo stesso delirio. Amici, noi abbiamo una fortuna incredibile! Stiamo per assistere al suicido in diretta dell’Economia della speculazione.

     A volte mi dico che mi piacerebbe trovarmi in amabile conversazione con alcuni economisti di Harvard o della London Business School o della Bocconi e porre loro la domanda cruciale: Signori, prima di parlare di denaro, ditemi: Chi è l’uomo? Volete cortesemente definire la vostra idea di Natura Umana? Sì, perché senza chiarire questo punto continueremo ad alimentare lo stesso paradigma che ha portato alla situazione attuale, alla povertà e alla miseria del 90% della popolazione mondiale. Ammetto che forse non in tutti gli artefici di questa disfatta erano all’inizio in mala fede, ma qualcosa non suonava bene già due secoli fa quando il settimo presidente degli Stati Uniti, Andrew Jackson, dichiarò: “Voi siete un covo di vipere e ladri e io intendo sconfiggervi, e per il Padreterno, vi sconfiggerò. Se il Congresso ha la prerogativa di emissione di moneta cartacea, ciò gli é stato dato per venir usato dallo stesso e non per essere delegato a individui o corporazioni...”.

     Non si sono spaventati più di tanto quei ladri al cui confronto i rettili evocati sono esseri innoqui. Anzi, alla faccia del Padreterno, hanno prosperato fino a questo Anno di grazia 2020, per loro l’inizio della fine. Può darsi che il declino non sia immediatamente visibile, ma ci sta: un albero tagliato non secca immediatamente. Ma il processo è irreversibile e, malgrado le molte resistenze, sta maturando una consapevolezza che sradica ogni rinascita egoistica.

     Non c’è bisogno di ripercorrere qui le strade che hanno portato ad adottare il modello capitalistico o la via collettivistica attuata storicamente nel modello comunista. Bastano poche pennellate essenziali allo scopo.

     Quanto Adam Smith pubblicò “La ricchezza delle nazioni” , bibbia che divulgava il verbo dei principi liberali, era il 1776: si era agli albori della cosiddetta Rivoluzione industriale, in quello stesso anno la Corona britannica subiva l’onta terribile delle colonie d’oltre oceano che la sfidavano con l’accusa di tirannia e in Francia si oliavano le ghigliottine in preparazione alla resa dei conti con la nobiltà e con l’alto clero ancora allegramente gaudenti dei loro privilegi. In quegli anni Karl Markx non aveva neanche i pantaloncini corti ma quando mise quelli lunghi gli fu evidente che i primi faccendieri in camicia bianca (forse quello era il primo stadio prima della metamorfosi in economisti e finanzieri) stavano generando un mostro. Sventolò la bandiera dello spettro che cominciava ad aggirarsi in Europa, ma anziché riflettere se ci fosse del vero si procedette sulla strada della Rivoluzione.

     Il Liberismo manchesteriano aveva un principio: “Più uno fa i suoi interessi, più gli interessi della collettività”. Brillante, naturalmente il concetto di “interesse” ed è emozionante capire quanto si avesse a cuore il bene collettivo. Non c’è da meravigliarsi dunque se nacque il socialismo e l’ideologia comunista che affascinò i più poveri e deboli. Saranno chiamati “proletari”, coloro che come unica proprietà hanno la prole. Stava nascendo un capolavoro di modello sociale e civile di alto senso morale che avrebbe segnato l’Occidente e il mondo fino ad oggi.

     Inutile dire che dell’Etica e della Politica della Felicità dei cittadini e del Bene comune vi era più neppure l’ombra. Al suo posto il pensatori inglesi e francesi del tempo elaborarono la teoria del Contratto sociale. Ma quale contratto? Firmato da chi se il mondo era analfabeta e gli uomini e le donne del pianeta non sapevano neppure vedere scritto il proprio nome?. Si aveva nostalgia del Buon Selvaggio: “L’uomo per natura è buono, è la società che lo corrompe”. Certo, caro Rousseau, che l’uomo per natura è buono. Direi che lo sentiamo tutti istintivamente dentro di noi e ci sono anche molte esperienze personali e sociali a confermarlo. Ma se gli pisci addosso in continuazione, lo affami, lo fai lavorare da schiavo, gli impedisci gioie e piaceri si corrompe di certo. E anche molto per giunta. Tu non ti corromperesti bel francesino profumato? Ci hanno anche raccontato per secoli la storia del peccato originale, ora sappiamo che è una bufala: la colpa di cui si tratta è una minaccia per l’uomo, non qualcosa che ha compiuto. Ma come allora bisognava motivare in altro modo il castigo di doversi guadagnare il pane con il sudore della fronte?

     Insomma l’alba dell’economia moderna è insanguinata dalle lacrime e dal sangue dei tanti che morivano negli opifici per arricchire pochi borghesi che andavano consolidando la loro posizione di benefattori dell’umanità. E la carne da macello che contribuiva alla ricchezza delle nazioni espiando la colpa primigenia di aver disubbidito al comando divino trovava ascolto in un’altra ideologia tossica. Ci si può chiedere dove fossero le Chiese e, quella cattolica in particolare. Le gerarchie fecero la loro scelta: si inclinò verso il capitale per ragioni di opportunità: i proletari non avevano naturalmente molto da elargire mentre la borghesia si prestava a offerte e donazioni con le quali sostenere opere di carità ed elemosine a favore dei poveri. Inoltre gli uni erano atei e materialisti mentre gli altri andavano alle funzioni. E nacque in tali contesti l’idea che la religione fosse l’oppio dei popoli. Strada facendo mutarono i rapporti di forza e ai nostri giorni l’oppio e derivati sono diventati la religione dei popoli. Anche in questo, nessuna meraviglia: chiese molto gerarchizzate avevano da tempo perso slancio profetico a denunciare le menzogne su cui si andava narcotizzando la gente. Nel 1832, il più importante filosofo italiano del tempo, Antonio Rosmini, religioso per altro, ebbe un coraggio indicibile scrivendo un libro sulle Cinque piaghe della Chiesa: una di queste era l’ignoranza del clero.

     Mi fermo qui. A suo tempo, nelle Lezioni di Filosofia ci sarà modo di tornare su qualche aspetto anche se guardare indietro non serve più a molto. Noi oggi abbiamo il compito di voltare pagina e farlo in modo che si cominci con l’uscire dagli schemi angusti che ci hanno portato fin qui. Per quanto benemerito possa essere stato il modello di Keynes, sulla scia di Kondatriev, non basta più. Il ritenere che per evitare le crisi capitalistiche basta sostenere i consumi ha esaurito la sua credibilità: le teorie del sostegno alla domanda effettiva non hanno più presa perché sono crollati i piedi di argilla su cui si cerca da quasi tre secoli di impedire il realizzarsi dell’Etica e della Politica della Felicità. L’entusiasmo post bellico è finito presto: ricostruzione, domanda illimitata, consumi e produzione senza fine hanno preso mostrato i limiti della mancanza di misura. Allora, via a studiare nuove vive: la panacea divenne la globalizzazione. A trarne vantaggio furono i soliti pochi con nessun vero beneficio di giustizia distributiva. Poi vennero i fautori della moneta unica: e con l’Euro a goderne furono le banche e non i cittadini europei entrati in rapida deriva verso livelli di povertà e miseria avvilenti. Naturalmente, si è andati alla ricerca di messaggi persuasivi sulla “ripresa”… sempre annunciata, mai vista. Perfino Economisti da Premio nobel nel 2001 si dicevano ottimisti sulla ripresa: veri maghi i signori, e dopo il 2008 hanno deciso per l’eloquente silenzio. Chi ha sentito qualche se dicente economista svolgere un ragionamento sensato sullo status quo e su come uscirne senza rendersi ridicolo? Parla con libertà chi non è al soldo delle Lobbies. Io conosco solo Nino Galloni.

     E adesso? Prendiamo atto che in questi giorni che celebriamo il funerale concettuale del capitalismo imploso nei suoi presupposti speculativi. Nessuna cura possibile perché alla fine è morto per la sua mancanza di conoscenza della Natura Umana. Si è fatto abbagliare dalla visione dell’homo homini lupus e alla lunga è stato fatale. Non aver preso sul serio l’universale vocazione umana alla felicità e aver snobbato la forza del concetto di uguaglianza ha travolto questa esperienza economica dai risvolti sociali tragici. La speculazione ha avvelenato la convivenza civile e ora dogmi apparentemente intoccabili sono sbugiardati nelle loro premesse.

     Riposizioniamo il discorso alla luce di un cambio di punto di vista che già sconvolse i benpensanti del tempo del Maestro di Nazareth quando sentenziò che il sabato è fatto per l’uomo e non il contrario. Così diciamolo apertamente anche qui che l’economia è fatta per l’uomo e non l’uomo per l’economia. L’economia si faccia meno arrogante e, umile, si accodi in ascolto prima dell’Etica e poi della Politica dalle quali potrà apprendere cose interessanti per il suo stesso bene. Scardiniamo dunque la presunzione dell’Economia di impossessarsi di ruoli non suoi. Purtroppo si è verificato che Parlamenti e Governi siano alla mercé delle Banche Centrali e dei Finanzieri che si tengono sullo sfondo, ma è tempo di curare questa patologia. Per prima cosa rimettiamo nel giusto ordine questo rapporto.

     E la domanda cruciale deve avere una risposta. Coraggio, signori dell’Economia, dite: “Quando elaborate le vostre teorie a quale tipo di uomo pensate? Chi è per voi l’Essere Umano? Un consumatore? Un conto corrente? Un investitore? Un risparmiatore? Un numero in una statistica? Un pollo? A chi pensate quando giocate a fare dio con cifre a 8, 9 o 10 zeri?

     Money, it’s a crime… Te la ricordi la chitarra di Gilmour dei Pink Floid e quelle parole… I soldi sono un crimine … Condividili, ma non prendere una fetta della mia torta. I soldi, così dicono, sono la radice di tutti i mali… Avevo ragione… Stavo chiedendo perché non era gratuito…
Ecco appunto, i soldi. Cosa sono? Non sono all’altezza di Georg Simmel, ma mi piacerebbe intrattenermi con qualche economista e conversare di Filosofia del Denaro. Non possiamo scavalcare questo passaggio, è troppo importante per chiarire malintesi e tracciare una nuova via.

     Nel capitolo V della sua Etica Nicomachea, uno dei due dedicati alla giustizia, Aristotele sente di dovere di parlare della moneta e della sua origine. Ha detto fin dall’inizio che si deve cercare il Bene dell’uomo e che la Felicità è l’attività che non rinvia ad altra perché è la massima finalità cui tutto deve tendere. Parla della moneta con tale candida lucidità da generare orgasmo per ogni razionalità amante del moralmente bello e giusto: oggi – se potesse vedere a quale scempio si è arrivati – proverebbe indignazione (ma nella modalità virtuosa che lui ben conosceva). Mi offusco dietro la sua parola:

      “Le cose di cui v’è scambio devono essere in qualche modo commensurabili. A questo scopo è stato introdotta la moneta che, in certo qual modo, funge da termine medio: essa infatti misura tutto, per conseguenza anche l’eccesso e il difetto di valore, quindi anche quante scarpe equivalgono ad una casa o ad una determinata quantità di viveri. Bisogna dunque che il rapporto che c’è tra un architetto e un calzolaio ci sia anche tra un determinato numero di scarpe e una casa o un alimento. Infatti, se questo non avviene non ci sarà scambio né comunità. E questo non si attuerà se i beni da scambiare non sono in qualche modo uguali. Bisogna dunque che tutti i prodotti trovino la loro misura in una sola cosa, come abbiamo detto prima. E questo in realtà è il bisogno, che unifica tutto: se gli uomini infatti non avessero bisogno di nulla, o non avessero gli stessi bisogni, lo scambio non ci sarebbe o non sarebbe lo stesso. E come mezzo di scambio per soddisfare il bisogno è nata, per convenzione, la moneta. E per questo ha il nome di nomisma (moneta), perché non esiste per natura ma per nous (legge), e perché dipende da noi scambiarne il valore o renderla senza valore. Ci sarà, dunque, reciprocità quando si sarà proceduto alla parificazione, così che rapporto tra un contadino e un calzolaio sarà uguale al rapporto tra il prodotto del calzolaio e quello del contadino.

     E continua: …È per questo che tutte le merci devono essere valutate in moneta: così, infatti, sarà sempre possibile uno scambio e, se sarà possibile lo scambio, sarà possibile anche la comunità. Dunque, la moneta, come misura, parifica le merci, perché le rende fra loro commensurabili: infatti non ci sarebbe comunità senza scambio, né scambio senza parità, né parità senza commensurabilità . In verità sarebbe impossibile rendere commensurabili cose tanto differenti, ma ciò è possibile in misura sufficiente in rapporto al bisogno

      Era la Grecia illuminata dai filosofi e si era a un grado di civiltà che ha permesso nel IV secolo a.C. di formulare la questione moneta in quella luminosa sobrietà concettuale che si armonizzava con la sapienza di Socrate, l’Idealità di Platone e il realismo di Aristotele. Si parlava di Bene, di Felicità, di Piacere… a carattere universale. Ma poi qualcosa snaturò quella bella favola e si cominciò a considerare la moneta in ben altro modo:  s’infranse un equilibrio che degenerò presto ad distinguere chi di quelle monete ne aveva tante e chi invece poche o nessuna. Non ci volle molto a capire che il censo sarebbe diventato un criterio importante per la rilevanza sociale e il potere. No soldi, no potere!

     Ma nulla era pregiudicato: il denaro poteva essere guadagnato. Il lavoro divenne la via per acquisire metallo o carta che permettesse di elevarsi nella scala della considerazione sociale. Più lavori, più guadagni e più soldi hai. Tu dai il tuo tempo e la tua fatica a un tuo simile (che però di soldi ne ha già) e lui ti paga in denaro. E con esso tuo puoi mantenere te e le persone che ti sono care. Si modella una società in cui l’importanza di avere tanto denaro è così determinante che si scatena la corsa ad averne di più: si capisce che averne in quantità ti permette di non lavorare più, o, in ogni caso, non per forza o per qualcuno. La voglia appunto di essere qualcuno che si distingue e non si rassegna ad una vita di lavoro ha portato nel tempo ad escogitare metodi per ottenere denaro senza lavorare: dai furti alla truffe, dal commercio di ogni genere di sostanze dannose ai falsari e via dicendo, con una gamma infinita di applicazioni, dai ladri di pollai fino ai professionisti dell’informatica criminale.

     Un concetto dominante e acquisito come vangelo è che non tutti possono essere ricchi. Lo si è per sangue blu, per elezione divina, per discendenza aristocratica, per intraprendenza, per eredità: non tutti in ogni caso. Ma procurarsi denaro per sopravvivere o per una vita senza lavorare fu la quotidianità di generazioni per secoli. A parte le varie forme di pauperismo religioso o laico, il vil denaro è stata una delle molle trainanti della storia. E anche il terreno di coltura di ampie forme di criminalità, dai barboni di strada fino ai signori in doppiopetto.

     Se la moneta è una semplice convenzione determinata dal bisogno di regolare gli scambi utili alla convivenza e non esiste per natura ma per legge, chi impedisce che si faccia una legge secondo al quale ogni persona debba avere denaro necessario ai suoi scambi senza dover lavorare per averlo? Facciamola. A chi da fastidio che si abbia tutti denaro a sufficienza senza fare fatica per ottenerlo? Proviamo a reimpostare il punto di partenza. Ripartiamo dalla Natura Umana.

    Piaccia o no a qualcuno, a questo punto della storia, dopo millenni di filosofia e di religioni nessuno può mettere seriamente in discussione che la Natura Umana abbia una dimensione spirituale insopprimibile. Che l’uomo sia ciò che mangia ha il suo fascino solo nel campo dell’alimentazione ma non chiude il cerchio. Il materialismo classico ha le polveri bagnate e non ha scampo in quest’era dell’energia, delle vibrazioni e delle frequenze. Da un punto di vista poi esperienziale, sentiamo di avere un’anima e di essere uno spirito con un corpo. Percepiamo ripetutamente che i nostri desideri sono incapaci di qualsiasi soddisfazione permanente nelle cose non spirituali.
Stante queste premesse, il denaro non è quindi di alcun valore eccetto quello di procurare le condizioni che desideriamo. E cosa se non condizioni necessariamente armoniose che ci diano felicità? Questa non prescinde da beni anche materiali e quindi le condizioni che vogliamo armoniose necessitano di sufficiente sostentamento: la conclusione sembra chiara dunque a indicare che l’idea o anima del denaro è l’utilità. Ogni altro senso può essere deviante e pericoloso. Lo abbiamo visto. Probabilmente anche sperimentato sulla nostra pelle.

     Allora iniziamo la nuova storia dell’Economia dell’Armonia : una Politica che viva la sua vocazione etica a promuovere in ogni modo la felicità di tutti i cittadini provvederà con leggi giuste e sagge affinché essi abbiano vite armoniose. Lo si può fare iniziando con il dotare ognuno del denaro utile al suo sostentamento e a un’esistenza dignitosa ad ogni livello. Così facendo si dissolvono due concetti chiave della schiavitù: prestito e debito. Quando si dispone di quanto serve, perché chiedere prestiti o contrarre debiti con chicchessia? Ecco la fine del ricatto su cui si regge l’economia odierna strutturalmente ansiogena: stress da lavoro, ansia da pagamenti, depressione da debiti. Quanti anni di avvilimento per intere generazioni per una visione demoniaca del denaro. Follia!

     Oggi però si è sviluppata la consapevolezza che la mistificazione sul denaro solo a qualcuno è finita: c’è abbondanza illimitata di denaro. Basta stamparlo e distribuirlo. C’è già chi lo fa a costo zero.
Fa problema a qualcuno che si sia tutti ricchi? Il fine dell’economia è appunto la ricchezza. Di tutti però.

     E poiché una vita felice consiste nell’esercitare liberamente il proprio ingegno, mettiamo la parola fine sul lavoro. Nessun obbligo, solo espletamento sereno di uno dei più radicati bisogni delle persone: contribuire. Si passerà molto fluidamente dalla competizione alla collaborazione. C’è abbondanza e posto per tutti. A cosa ti serve infatti il profitto? Perché procurarsi acidità di stomaco ad inseguire uno status a cui invece hai diritto per nascita? A un livello più alto di riflessione la parola business sarà un arcaismo quasi insopportabile. Ti assicuro che non ne sentiremo la mancanza.

     Insomma, ancora, a chi fa paura l’Etica e la Politica della Felicità? Non dobbiamo aspirare ad elevarci ad una convivenza fondata sull’amicizia? No? Va meglio la conflittualità permanente in dinamiche costantemente gridate? Meglio continuare un’esistenza minata in uno dei suoi fondamenti quale l’autosufficienza, per restare al guinzaglio di predatori senza scrupoli? Accettiamo ancora la deriva nella svendita della nostra vita ai Signori dell’Alta Finanza? Le malattie neurodegenerative ci stanno avvisando. Forse spaventa che si debba finalmente riportare in auge il concetto di Virtù? Ma perché mai?

Il dado è tratto. E ormai non è questione di old o new economy. Si tratta di Felicità e basta.

E le Banche?
Dicano le loro ultime preghiere.
Stiamo scrivendo l’epitaffio per la loro fine.

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