Lavoro!
Lavoro!

Lavoro!

E se non ci fosse stato detto tutto su questa faccenda? Oso qualche riflessione spregiudicata riguardo a quel che non si dice su come sia cominciata questa tristissima storia. Lavorare: dal latino, labor che significa fatica. Cosa abbiamo festeggiato il Primo maggio? La fatica? Una punizione? Il sudore della fronte? Forse una condanna? Nel 1936 il nostro grande poeta Cesare Pavese scrisse “Lavorare stanca”. Qualche anno dopo, pose fine ai suoi giorni.

Una faccenda che ci riguarda da vicino, e molto anche, perché il famigerato lavoro rientra nella categoria delle attività obbligatorie oltre che faticose. Di più, esso è una conseguenza di qualcosa che, pur rimontando ad un’era di cui neppure Matusalemme aveva memoria, è alla base della nostra inesorabile quotidianità. Sembra incredibile come ci si abitui a tutto e anche le più sfacciate insensatezze vengono assimilate come ovvietà, nemmeno più argomento di discussione. Eppure il lavoro è un nodo cruciale sul quale esercitare l’epoché (la filosofica radicare spregiudicatezza) andando a investigare sulla sua origine, sulla sua storia e provare a smascherarne la perversione. Sì, dato che nulla si dimostra essere più disumano del lavoro. Perché esso è intrinsecamente fatica, come dichiara senza dubbio la sua etimologia e faticare non ha nulla di pertinente con la principesca dignità di ogni Essere umano, indistintamente, dalla nascita.

Una fatica non senza un obiettivo, perché essa è funzionale al raggiungimento di uno scopo, ad ottenere un risultato in cui siamo coinvolti con la nostra intraprendente volontà. Ecco, quando noi lavoriamo, svolgiamo un’attività faticosa con l’intento di pervenire ad un esito, ossia quello che ci siamo prefissati di raggiungere. Stupenda prospettiva di vita che come ebeti incarniamo molto presto e alla quale restiamo fedeli, essendo addirittura grati di poter sprecare anni a onorare la quotidiana fatica che ci assicura la sopravvivenza. E dire che da noi il lavoro ha una protezione legislativa in cui il rapporto tra diritti e doveri è regolato contrattualmente, per quanto forme sottili di discriminazione a vari livelli siano imperanti; male minore, si direbbe, considerando che a molte latitudini ci sono ancora milioni di Esseri umani che faticano senza alcuna tutela, né riguardo a condizioni sanitarie, né circa gli orari, né in ordine al salario, alla sicurezza e alle garanzie assicurative. Ogni giorno uguale al precedente e al successivo, mese dopo mese, in cicli annuali che passano avendo immolato il proprio presente sull’altare del non senso. So che tuttavia il lavoro può essere percepito anche in un modo che, soggettivamente, mostrerebbe qualcosa di nobile, ossia un’occupazione per dare valore alla propria vita. Visto così, lavorare diviene uno scopo di cui andare fieri, poiché attraverso di esso si mantiene la propria famiglia, si genera reddito per la propria indipendenza economica, si producono risparmi per assicurarsi una vecchiaia serena. Oltre, naturalmente, ad avere di che pagarsi dignitosamente il funerale senza dover gravare sui parenti. È sicuramente un modo di concepire la vita meritevole di rispetto: esso concepisce la fatica in termini di sacrificio, da accettare come esperienza da sopportare in vista del risultato: in fondo se non soffri non migliori.

Un’educazione ben accurata ha portato a valorizzare socialmente chi aveva voglia di lavorare e a disonorare i lazzaroni: convinzioni trasmesse con costanza da cattedre e da pulpiti hanno contribuito a perpetrare il modello del lavoro come fonte di realizzazione personale e di produttività sociale. Come non ricordare il minatore Aleksej Stachanov che ottenne medaglie e riconoscimenti, additato dalla propaganda di regime quale esempio ad imperitura memoria? Ma anche come non rammaricarsi vedendo un essere umano tanto bene educato al valore del lavoro da riuscire a raccogliere 102 tonnellate di carbone in 5 ore e 45 minuti? Se gli eroi del lavoro bolscevico erano osannati nelle patrie comuniste, lo stacanovismo, come concetto, come espressione della verità quasi universale che vuole il lavoro un elemento strutturale di ogni società, ha albergato durevolmente anche in ideologie di altra colorazione. Eppure, oggi possiamo considerare il lavoro come una delle più colossali truffe mai perpetrate a danno dei Tanti, dei tantissimi anonimi individui passati dalla storia senza che neppure resti ricordo della loro spropositata fatica di esistere.

Chi sbaglia, paga. Così funziona la giustizia, anche quella divina: Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla terra! La disobbedienza era stata grave e le conseguenze non potevano essere da meno, andando a colpire addirittura il suolo dal quale trarre nutrimento: Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te. Anche con la donna non si era andati per il sottile: Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà. Insomma, parole poco piacevoli da sentirsi dire e non consolava che anche il serpente tentatore avesse avuto severissima condanna. Ciò che faceva specie era l’irrimediabilità di un destino che non avrebbe mollato la presa fino a ritorno al luogo di origine, la polvere: polvere tu sei e in polvere tornerai!

La nostra fatica di oggi è l’espiazione della colpa di ieri e tutto sarebbe così ben documentato da indurci ad accettare questa concezione del lavoro senza batter ciglio, senza osare un altro punto di vista. Quella che ci è sempre stata proposta come la conseguenza di una disobbedienza legata ad un frutto mangiato sconvenientemente si è tradotta come effetto concreto a condizionare il significato della presenza umana nel mondo, declinata su una terminologia entusiasmante come dolore, sudore, maledizione, sottomissione, polvere. Tutto a causa tua! E per rendere il sigillo indelebile, la tradizione, divinamene ispirata, ha sancito che la colpa dei progenitori passasse nei figli e che per rialzarsi da quella rovinosa caduta ci sarebbe voluto il sangue di un crocifisso. Per quanto possa essere istruttivo proseguire nella storia, andare avanti ci porterebbe lontano dal nostro specifico interesse qui che è di considerare un fatto spesso ignorato. Si dà per scontato che quella che ha parlato quel giorno nell’Eden originario fosse la voce di Dio. Perché mai, con tutto il bene che si è poi detto di Lui, l’Altissimo avrebbe dovuto, in un modo così antropomorfico, montare in collera per una infantile marachella? Adirarsi in modo così sproporzionato a una venialità compiuta da chi ancora familiarizzava male con tutte quelle specie di deliziosi alberi del giardino! Chiaro che il reato di lesa maestà in certi ordinamenti comporta la pena capitale, ma come non essere indulgenti! Al primo sgarro di solito, anche i capi più severi fanno un semplice richiamo.

Deve esserci qualcosa che sfugge in quel mito. E quel che non ci è stato detto è che quelle parole non erano di un Dio buono bensì a lui attribuite da chi quel racconto aveva redatto. Non è detto che l’estensore fosse anche l’ispiratore di quella scena sul palcoscenico delle origini: erano talmente in Pochi a saper scrivere e a saper leggere quel che veniva scritto che qualcosa di misterioso resterà sempre. Non di meno, possiamo assolverci dal sentirci reprobi e mettere a fuoco che, invalidando la condanna per gravissimo vizio di forma (in quanto non pronunciata dal Magistrato giudicante legittimo), cade anche il nostro destino indicato da tutte quelle sgradevoli parole con cui siamo stati apostrofati, noi indirettamente, ma non meno efficacemente. Stante questa ipotesi, siamo davanti al più grande falso in atto pubblico mai messo in atto, contraffazione di un testo sacro operato da esseri umani (Pochi) a danno dell’intera Umanità. D’altro canto come potevano organizzarsi le società senza una forza lavoro che sostenesse la fatica di tutte le incombenze manuali necessarie a trarre da un suolo, divenuto anche ostile per la maledizione in cui era incorso, il nutrimento per la casa reale, la corte, i sacerdoti e i notabili del regno?

Riflettiamo, serviva veramente una legittimazione con inattaccabile forza obbligante per rendere convincente la norma che i sudditi dovessero lavorare: quella era la volontà di Dio. Chi mai avrebbe osato opporsi a voleri dell’impronunciabile nome dell’Eterno scritti nella Legge di Mosè? E quella è Parola di Dio, da Lui ispirata! Stupisce che neppure la Carità si sia data pena di insegnare al volgo a leggere e a scrivere lasciandolo accedere ai testi che canonizzavano la sua schiavitù? E così, mani astute, con intuizione sociologica geniale, trovarono la soluzione fondamentale per strutturare le società di tutti i tempi: rendere obbligatorio il lavoro ai Tanti affinché i Pochi potessero occupare il loro tempo ad altre questioni importanti che il loro stato di governati richiedeva, intercalando tuttavia anche dei piacevoli momenti ludici, con rilassanti intrattenimenti fatti anche di goliardiche competizioni da celebrare finalmente in tavole ben apparecchiate e quindi in letti odoranti di pulito, non di rado in erotica ed efebica compagnia. Così è andato il mondo fino ad oggi, naturalmente con aggiornamenti e migliorie che le varie epoche hanno suggerito, affinché nulla si facessero mancare coloro che avevano ereditato gli oligarchici benefici da tanta astuta intelligenza. Sia essa benedetta nei secoli dei secoli! Voltaire fu di aspra sentenza: un ecclesiastico è uno che si sente chiamato a vivere senza lavorare a spese dei disgraziati che lavorano per vivere.

Questo tuttavia spiegherebbe l’antecedente giuridico-religioso alla maldestra fandonia sul lavoro per le culture che hanno alla base il riconoscimento della Bibbia come testo sacro, ma per le civiltà di altri continenti forgiate su altri testi fondatori? Anche in questi casi, le mani che hanno scritto le mitologie fondatrici, le cosmogonie e la genesi del primo uomo hanno opportunamente individuato che, affinché trovassero legittimità i privilegi delle caste elevate si potesse ipotizzare solo che numerosi individui fossero obbligati ad eseguire ordini, perché così sancito da qualche norma autorevole. Ma poteva essere anche semplicemente il timore incusso dalla violenza di chi si era imposto con la forza, modalità meno elegante della manipolazione di un testo divino ma pure sempre efficace. Si dice che il servus fosse un cardine dell’organizzazione sociale delle società antiche: i servi, in genere, erano i Tanti che svolgevano tutte le attività manuali che i Pochi non potevano o non volevano svolgere dedicandosi alla cura dei propri interessi, tanto pubblici che privati. Stabiliva da che parte stare il lignaggio dimostrabile. Tra i Tanti figuravano quanti erano considerati bottino di guerra e quindi mera proprietà, animali tra quelli da cortile o da soma che permettevano una convivenza sociale ben strutturata: emancipazione e riscatto non erano impossibili, ma veramente rari. Quando comparve la Carità e con la buona novella della salvezza universale fece breccia negli stati sociali popolari la parola liberazione fu un fatto quasi eminentemente spirituale: riguardava la schiavitù dal peccato e non dalle limitazioni sociali. Niente di profeticamente rilevante per la condizione di chi servus era e servus rimaneva, anche se nei sacri testi si raccomanda che il servitore sia trattato bene, molto più che come schiavo, come un fratello carissimo. Ribadisco che quel che si potrebbe accettare da civiltà primitive, politeiste e pagane non sembra pertinente alla religione che fa dell’amore universale fatto carne la sua massima originalità.

Per secoli, in epoca di societas cristiana, le categorie che la componevano erano tre: alcuni pregavano, altri combattevano, gli ultimi lavoravano; questi ultimi erano chiamati servi. Tra questi poi, vi erano quelli detti della gleba, ossi dipendenti legati a doppio filo a un signore in qualità di coloni, a metà strada tra lo schiavo e l’uomo libero. Malgrado la perentorietà con cui un pensatore cristiano della levatura di Tommaso d’Aquino avesse dimostrato che la schiavitù fosse in contrapposizione con la legge naturale concludendo che per sua natura un uomo non è destinato a usare un altro uomo come un fine, non cessò mai il vergognoso commercio degli schiavi. Gli abolizionisti rimasero sempre minoranze e voci inascoltate, anch’essi tuttavia di ineguale valore, mescolati nell’ipocrisia di chi predicava e bene e razzolava male. Neppure la Dichiarazione del 1948 ha posto fine a questa orrenda piaga perché con la scusa di tenere conto dei valori locali delle diverse culture, a molte latitudini lo schiavismo non è scomparso. Insomma, quella di generazioni millenarie di esseri umani considerati proprietà e merce di scambio è una storia difficile da raccontare perché è terribile da concepire che sia andata così, senza che si siano cercate soluzioni e alternative. C’era la volontà di cambiare lo status quo? Non serviva forse assumere un’antropologia che postulasse la Perfezione della Natura umana, la sua intrinseca divinità e Unità?

A metà del XIX secolo scoppiò attorno alla schiavitù la guerra civile nei neonati Stati Uniti d’America e, dopo ere di silenzi e complicità, da noi arrivò Karl Marx: la schiavitù operai messa in atto dalla Rivoluzione industriale aveva una nuova connotazione e sembrava più raffinata, ma la sudditanza servile era ugualmente avvilente. Così, si fece della lotta di classe una bandiera rivendicativa di diritti con cui controbilanciare il dispotismo dei doveri richiesti e oggi noi definiamo il lavoro un’occupazione retribuita e considerata come mezzo di sostentamento, e quindi esercizio di un mestiere, di un’arte, di una professione. E si noterà che è recepito come un’occupazione e un esercizio, quindi un’attività che ha come scopo il procurarsi il sostentamento. Un mezzo strutturato come attività svolta e che viene compensata attraverso una retribuzione, proporzionata al mestiere, arte o professione messi in atto e al loro livello, calcolato su molti e non uniformi parametri. Essendo un mondo complicato non meraviglia che ci sia tanta letteratura attorno al lavoro: si trova veramente molto materiale volto a mostrarne il ruolo fondamentale nella nostra concezione del mondo. Non ci viene detto che esso, nella forma in cui è considerato e vissuto, è un insulto alla Natura Umana. Per più ragioni.

Nessun Essere umano deve essere obbligato a fare qualcosa. Ogni sua azione può solo discendere da una libera scelta. Nessun dio e, men che meno, un altro essere umano può costringere a una fatica che non provenga da una volontà che accetta e ammette il sudore della sua fronte, perché questo è il suo piacere. Aver stabilito un rapporto di causa ed effetto tra lavoro e retribuzione è una deriva che assegna un prezzo all’esistenza, la creazione di una dipendenza innaturale del Valore umano al denaro, allorché l’Essere umano non ha equivalente monetario o di altro tipo: del suo sostentamento deve disporne ipso facto, per il fatto stesso di essere nato e accolto nella comunità degli esseri viventi. E sono molto serio quando affermo che nessuna azione umana deve essere retribuita! Il vivere umano, nelle sue variopinte espressioni, è pura gratuità perché ha in sé la ricompensa somma, la sola proporzionata alla sua dignità, che si chiama Felicità. Essa, nella sua forma concreta più completa – come Aristotele nota – consiste nell’esercitare liberamente il proprio ingegno. Liberamente!

E quando si parla di ingegno si fa riferimento all’intelligenza umana, come tratto distintivo proprio dell’attività degli Esseri che ne sono dotati. Ed ecco quindi quale dovrebbe essere il paradigma confacente a tale assoluta eccellenza: se, d’altra parte, si riconosce che l’attività dell’intelletto si distingue per dignità in quanto è un’attività teoretica, se non mira ad altro fine al di là di se stessa, se ha il piacere che le è proprio (e questo concorre a intensificare l’attività), se, infine, il fatto di essere autosufficiente, di essere come un ozio, di non produrre stanchezza, per quanto è possibile ad un uomo e qual altro viene attribuito all’uomo beato, si manifestano in connessione con questa attività: allora, per conseguenza, questa sarà la perfetta felicità dell’uomo, quando coprirà l’intera durata di una vita; giacché non c’è nulla di incompleto tra gli elementi della felicità (Aristotele).

A tutto si deve pensare al mattino quando ci si alza tranne che a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte: il pane ti arriverà a casa direttamente e gratuitamente dal forno, perché il fornaio non si alza prima dell’alba spinto dall’obbligo di fare qualcosa che gli procuri un tornaconto monetario attraverso il quale soddisfare il sostentamento suo e della sua famiglia (e, attraverso il versamento di contributi e tasse allo Stato, anche quello di chi nella comunità non è in grado, o non più, di esercitare un mestiere, un arte o un professione). No, affatto: il fornaio si fa supportare dalla migliore tecnologia che lo Stato gli offre per fare il pane più buono del mondo, pur permettendogli di alzarsi quando lo ritiene e con una ingegneria gestionale che gli semplifica la vita, eserciterà liberamente il suo ingegno sollevato da ogni preoccupazione monetaria. Sì, perché è accaduto che una Politica vera ha smontato un’Economia falsa e ha rimesso a posto l’equilibrio alterato.

Anche evocando con sorridente ilarità il proverbio spagnolo, forse andaluso, che dichiara candidamente che un uomo che lavora è un uomo che perde del tempo prezioso, naturalmente si stenta anche solo ad immaginare che si possa vivere così, senza ansia da soldi pochi, perché chi ne ha tanti ti fa l’elemosina, avendoti convinto che non meriti niente che non ti sia guadagnato. Il concetto di base pare essere quello che, dato che si è nati dalla polvere e in polvere si ritornerà, questo intervallo di tempo passiamolo sopravvivendo alle intemperie: fa allo scopo un lavoro che assicuri il massimo rendimento con il minimo sforzo, cercando di migliorare la posizione in cui ci si trovava al nastro di partenza. Talmente è entrata in circolo l’idea che il lavoro sia il nostro destino che assistiamo a reportage televisivi sulla disoccupazione in cui persone chiedono il lavoro. Addirittura si invocano politiche che creino posti di lavoro: ecco l’inconsapevole accrescimento dell’Eldorado della schiavitù! Che stupenda paranoica operazione di avvilimento è stata compiuta! Gli Esseri umani impastati di divina essenza, con principesca nascita e immorale epilogo nell’Unità del Tutto non chiedono la Felicità, chiedono il lavoro. Follia.

È in nome della divinità dell’Essere umano che va annientata la nozione stessa di lavoro ed è ancora il Filosofo a spingere la riflessione alla sua naturale completezza: Ma una vita di questo tipo sarà troppo elevata per l’uomo: infatti, non vivrà così in quanto è uomo, bensì in quanto c’è in lui qualcosa di divino: e di quanto questo elemento divino eccelle sulla composita natura umana, di tanto la sua attività eccelle sull’attività conforme all’altro tipo di virtù. Se, dunque, l’intelletto in confronto con l’uomo è una realtà divina, anche l’attività secondo l’intelletto sarà divina in confronto con l’attività umana. Ma non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, perché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare a cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi”. Si può quindi chiudere mirabilmente il cerchio: “ciò, infatti, che per natura è proprio di ciascun essere, è per lui per natura la cosa più buona e più piacevole; e per l’uomo, quindi, questa sarà la vita secondo l’intelletto, se è vero che l’uomo è soprattutto intelletto. Questa vita, dunque, sarà anche la più felice.

Meraviglia! Serve altro a convincerci di quanto il lavoro sia estraneo alla nostra natura divina? Per quanto da alcuni anni la letteratura dell’avanguardismo manageriale d’oltre oceano abbia cercato di elaborare nuove strategie per ripensare il lavoro in ordine alla qualità della vita, esse restano ancora prigioniere della loro incapacità teoretica di superane il concetto stesso. Non può farne a meno la loro visione del mondo che non prevede l’applicazione pratica della divinità della Natura umana, tanto è originale questa prospettiva. Non che aver allargato gli orizzonti interpretativi del work, del job, del working non sia un aspetto meritevole: ottima cosa aver offerto una comprensione del lavoro come esperienza più gratificante e meno faticosa, spingendosi fino a far superare l’edonismo mirando alla felicità, per quanto non sempre accuratamente definita. Insistere sul miglioramento della vita di tutti, facendo leva su aspetti importanti come l’autonomia, lo scopo, la responsabilità, la competenza e la motivazione sono da accogliere come segnali importanti di una volontà attenta a ispirare soluzioni allineate con i dati provenienti dalle neuroscienze sulla chimica del cervello. In fondo, tuttavia, si tratto solo di un nuovo lessico che si vende bene, fa business e che non manca di fascino affinché si lavori tutti meglio. E chi non vuole lavorare in condizioni migliori? In contesti di leadership consapevoli e innovative, senza dispersioni di energie, con focalizzazioni strutturate da evitare stress e produrre risultati appaganti in un flusso non forzato, quale effetto di stati ormonali ottimali, con il corredo di fatturazioni milionarie? Ma sempre di lavoro si tratta. Quando mai questi pur ottimi intraprendenti innovatori sanno gestire antropologicamente, nella loro pragmatica mappa, i concetti di autosufficienza, di perfezione, di virtù, di divinità, di immortalità? Ancora un passo indietro rispetto ad Aristotele. Per quanto entrambi siano lacunosi, mi rendo sempre più conto che è sul miglioramento intenso del mio greco che mi devo concentrare più che sul perfezionamento del mio inglese.

Se un ultimo lavoro, forse il più duro per altro, proprio dobbiamo fare, è quello ci cominciare a pensare con sereno rigore e proviamo a rimetterci in asse con la nostra Perfezione ripartendo dalle nozioni elementari di un’antropologia diversa da quella tossica che fa uso della colpa, del ricatto e della forza per istituzionalizzare una dipendenza dell’Essere umano dal denaro in nessun modo sostenibile. Si potrà ben dire che a sorreggere con un notevole contributo l’impalcatura economica odierna è imprescindibilmente il lavoro! Quella odierna a quanto pare sì, ma cosa ci obbliga a pensare che il modello economico attuale non possa essere sostituito da un altro? Chi non vede che questo sistema economico schiavista e schiavizzante è un Moloch ormai povero di idee e con esaurite risorse per inventarsi un suo rinnovamento? Il lavoro, né la sua organizzazione o distribuzione, non va quindi ripensato: va concettualmente superato in un Etica che abbia alla base il Bene per l’Uomo, quale fine supremo e inalienabile, costruito sulle Virtù che coronano quelle due portanti della Giustizia e, soprattutto, dell’Amicizia. A quel punto, l’unica azione da volere e perseguire è la Felicità per tutti. E attuare questo meraviglioso progetto spetta alla Politica.

Già, la Politica.

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