La fretta.
La fretta.

La fretta.

       Andar di fretta. Correre.

       Lo si chiamava logorio della vita moderna, oggi, con concisione anglosassone, si parla di stress. Vocabolo universale a qualificare un’era che vive in modo… accelerato.

Non una novità assoluta tuttavia, perché anche il Virgilio di Dante Alighieri aveva una certa premura: quando li piedi suoi lasciar la fretta, osservava della sua guida il poeta in viaggio nel Purgatorio.

Dunque, tutto sembra dire che la fretta ha la sua sede nei piedi. E il passo rapido di uomini e donne in molte faccende affaccendati testimonia l’urgenza di far presto.

A volte, di più.

      Perché in fondo si pensa di aver poco tempo disponibile e quindi bisogna sbrigarsi. Ecco quindi la sollecitudine nel procedere accelerando il passo.

      Senza per forza arrivare alla foga e alla precipitazione, è sempre comunque una questione di urgenza e quindi la rapidità del movimento dei piedi è il segnale inequivocabile di una certa premura. Cha ha naturalmente il suo prezzo.

      È subito detto: la fretta altera ogni atto. Questo è il senso di quell’annotazione dantesca sulla fretta, che l’onestade ad ogn’atto dismaga. Vera arguzia da poeta capace di scovare il tarlo che scava nelle azioni compiute con rapidità eccessiva. Sentenza precisa, dunque: si tratta di un attentato alla dignità di quel che si fa. Al suo valore umano. Divino, forse.

      Per un ragione in sostanza semplice. La fretta decentra dal presente, sposta l’attenzione sul poi e impedisce di gustare il piacere dell’azione stessa. Urgenza di arrivare in fondo. Di finire. Perdendosi la nobiltà dell’esecuzione.

Allora, perché non rallentare? Sarebbe puro buon senso.

L’impressione infatti è che molte persone non sappiano dove stanno andando, ma ci stanno andando di fretta.

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